09 Ott In logo we trust | Stefano Guerrini
Viaggio in treno da Milano a Bologna, seduti di fronte a me due uomini, età diverse e forse anche differenti ambiti sociali.
Uno è il classico studente, giovanissimo e con le cuffiette nelle orecchie, l’altro un padre di famiglia che parla al telefono con la moglie per tutto il tempo, entrambi indossano una maglietta con logo bene in vista, entrambi molto rassicurati nella loro scelta di stile.
Da una parte sulla T-shirt campeggia il nome di una casa di moda francese che di recente ha vestito la sposa in un matrimonio regale tanto chiacchierato, dall’altra due iniziali con un’aquila stilizzata in mezzo depongono per il marchio del Re della moda italiana.
Ebbene sì, la logomania è ancora fra noi. E ne ha fatta di strada.
Negli anni Ottanta non solo i Paninari sfoggiavano felpe con la scritta Best Company e fibbie con il logo El Charro, il marchio era uno status symbol e lo yuppismo italiano, o quello che Roberto D’Agostino chiamava “edonismo raeganiano” dal suo pulpito di profeta dello stile nel “Quelli della Notte” di Renzo Arbore, prevedeva un uso sfrontato e abbondante di simboli del lusso per sottolineare una classe di appartenenza, e basterebbe leggere un paio di pagine di “American Psyco” di Bret Easton Ellis per capire quanto l’abitudine al name-dropping di moda fosse radicata anche al di là dell’oceano.
Negli anni Novanta poi le cose son cambiate, un sociologo dello stile come Gilles Lipovetsky ha iniziato a parlare di “lusso emozionale” sottolineando come lo zainetto di Prada o il bauletto Monogram di Louis Vuitton fossero diventati una sorta di coperta di Linus, oggetti capaci di rassicurare l’ego, non tanto sottolineare una classe sociale.
E così, visto il successo degli accessori griffati fra le “desperate housewives” di mezzo mondo, alla soglia di un nuovo millennio che portava con sé molte inquietudini, i nomi noti dello stile diventarono bene rassicurante e l’acquisto, fatto sempre più spesso online, una coccola, un premio da concedersi, magari senza aspettare il compagno troppo spesso distratto.
E oggi?
I grandi gruppi e i brand storici tengono d’occhio i nuovi consumatori, non tanto i Millennials, di cui molto si è scritto, ma i ragazzi della Generazione Z, quelli nati dopo il 2000, che si parlano solo attraverso le stories di instagram e i gruppi formati su Whatsapp, ma, inchieste alla mano, particolarmente attenti a valori come amicizia e famiglia e propensi alla ricerca di punti di riferimento solidi e precisi.
Come risposta, i simboli delle storiche case di moda sono tornati a decorare felpe, ad esempio nella collezione uomo di Valentino, o a ripetersi ossessivamente su impermeabili e pantaloni, come da Fendi, per non parlare di Versace che diverte con un video in cui Donatella gioca sul nome del brand, indossando una maglia con marchio ben visibile.
Il logo diventa così una sorta di “Cavallo di Troia” per entrare nel cuore di una generazione, portandosi dietro tutto un mondo legato al marchio, fatto di radici, heritage e know-how.
Per la prima volta dopo tanti decenni il logo non andrebbe a sottolineare più un gruppo o una classe di appartenenza, ma a ricordare da una parte l’autorevolezza del marchio, dall’altra ad esprimere qualcosa in cui il consumatore crede, una maggiore attenzione a qualità e valori, una consapevolezza dello stile.
Non più fashion victim, ma fashion conscious!
Logo reDesign: hey reilly