12 Feb Raccontare una storia con stile | Stefano Guerrini
Ricordo ancora quando ero un ragazzino la maniacalità con cui seguivo il Festival di SanRemo.
Mi piaceva talmente tanto quella che, secondo me, era forse l’unica manifestazione italiana in cui si poteva gustare non solo la musica, ma anche un approccio al red carpet quasi internazionale, con attenzione ai look in primis, che passavo giornate a stilare classifiche, copiare testi, fissare nella mia mente fresca e giovane, così affamata di nuovo, immagini che poi sarebbero rimaste con me non solo come ricordo, ma anche poi come guida ispirativa per un lavoro che ho intrapreso nella vita.
Senza saperlo quelle serate, ma anche quei pomeriggi, davanti alla tv, non dimentichiamo che già negli Eighties quella del Festival era una esperienza totalizzante, in cui l’aspetto mediatico e televisivo surclassava di gran lunga il semplice approccio musicale, in fondo erano gli anni in cui “Video killed the radio star”, no? Particolarmente cara è rimasta nel mio cuore una edizione in cui da un lato c’era, grazie all’immensa Loretta Goggi (faccio outing: “Maledetta Primavera” è ancora oggi la MIA canzone di SanRemo!), lo sfoggio del meglio della creatività italiana, colorata, sexy, inizi anni Ottanta nelle forme importanti e nella sfrontatezza un po’ eccessiva di trasparenze e dettagli oro, e se non erro quei capi erano di Gianni Versace, mentre dall’altra un approccio femminile meno mainstream, più androgino e, anche se sofisticato, quasi street-style, con il pantalone da cavallerizza in pelle e il maxi foulard che fecero tendenza di Alice.
Anche quest’anno il mio approccio al Festival è stato lo stesso, ma faccio un’altra confessione, dopo averlo chiesto io pubblicamente su Facebook negli anni scorsi, perché vestire una celebrity su quel palco rappresenta sicuramente un traguardo professionale, poco prima della 69a edizione mi è stato chiesto di occuparmi dello styling di uno degli artisti in gara, non voglio annoiarvi con i dettagli, ma alla fine per tutta una serie di buone ragioni, tutte personali, sulle quali avrò modo di riflettere, ho scelto di declinare l’invito e non accettare il lavoro.
Mi sono quindi ritrovato come sempre ad affrontare la kermesse non dal backstage del palco, ma dalla cucina di casa mia!
Sui social ho già espresso un paio di opinioni e mi son guadagnato anche dei rimproveri, ma a onor del vero, mi sembra di commentare sempre in tono più o meno scherzoso, non prendiamoci troppo sul serio please, e spesso quelli che ho lodato son gli stessi che ho poi anche criticato e viceversa, non avendo sul palco del Festival nessun “amico” da difendere a spada tratta e nessun nemico da demolire (cosa che comunque non farei, perché se mi conoscete e seguite il mio lavoro, sapete anche che io quelli che mi stan poco simpatici tendenzialmente li ignoro).
Ma lasciatemi esprimere qui un concetto che mi sta a cuore e che, superbamente lo so, penso anche che sia condivisibile e palese: mai nessuna come questa edizione ha messo in evidenza, se non da un punto di vista musicale, anche, ma io non sono un giornalista di quel settore, soprattutto da un punto di vista di stile, quanto la nuova generazione di artisti, millennials, quasi generazione Z, sia reazionaria, poco propensa al gesto ribelle, folle, bohemienne, rivoluzionario.
Sembra quasi un controsenso che il progetto estetico più interessante di questo Festival fosse quello di un ragazzo che per cantare la sua “Vita spericolata” 3.0 abbia scelto un total look Carlo Pignatelli, sapiente nome della moda italiana, ma particolarmente noto per gli abiti da cerimonia!
Achille Lauro era elegantissimo e divertente, fighissimo secondo me, ma ci si aspetta il frac da uno che nella sua hit si augura una fine “a 27 come Amy”?
Aggiungiamo che il nuovo menestrello di una generazione, Ultimo, per la finale ha scelto un completo carta da zucchero che definire “boring” è fargli un complimento, mentre uno dei tanti cantautori/trapper/quel che è era in total Lanvin. Cioè Lanvin per uno che vuol rappresentare il nuovo che avanza? Davvero?
Gli stylist, i miei colleghi, che rispetto, sapendo bene quanto faticoso sia questo lavoro, per cui la mia è e rimane una opinione, condivisibile o meno, e senza togliere nulla a nessuno, hanno assunto un ruolo decisivo, ma in alcuni momenti hanno chiaramente scordato di non essere su un set fotografico, in altri che se uno canta di un dramma adolescenziale, quasi da cronaca e da TG, prima che sanremese, ci si potrebbe vestire non come al carnevale di Viareggio.
In tutto questo a vincere è stato lo stesso che poi il palco lo ha conquistato anche da un punto di vista musicale. Sempre giusto, alternativo, ma non così tanto da risultare inaccettabile alle famiglie, propenso al black, ma non in maniera stucchevole, trendy, ma in maniera equilibrata, il pantalone Rick Owens da gaucho indossato con un sopra semplicissimo, la T-shirt Raf Simons con la faccia di Christiane F., portata con un completo sartoriale, la maxi catena in vita che strizzava l’occhio allo street, Mahmood era totalmente a suo agio e in sintonia con il progetto musicale che presentava.
Perché anche nel mestiere dello stylist non ci si deve dimenticare mai che si sta raccontando sempre una storia, e chi ha seguito Mahmood da un punto di vista di stile ha scelto uno storytelling mai troppo gridato, ma pur sempre in ogni momento ben pensato.
E, in un’epoca di improvvisati, e cose a caso, fatemelo dire, scusate se è poco!
illustrazione: Maura Marinozzi – Mauma