02 Feb Musicattesa | Matteo Lion
La musica è in debito con l’attesa.
Ad un certo punto si è deciso che l’attesa, soprattutto quella telefonica, doveva essere associata ad una musichina. Spesso di pessima qualità audio. E in loop. Quasi a voler suggerire che l’attesa sarà infinita e che, probabilmente, sarebbe meglio desistere.
I due concetti si sono uniti nella satanica parola “musichetta d’attesa”.
I call center hanno poi alimentato l’odio e il risentimento per quel forzato ascolto.
I centralini con le loro playlist sono diventati più micidiali di Jessica Fletcher. Ci scappa sempre il morto.
Le quattro stagioni di Vivaldi sono state uccise con efferatezza da miliardi di centralini. E non ci si può fare più nulla. Appena parte la musica è automatica l’orticaria. Con buona pace di un classico della musica barocca, ormai sfigurato.
E così sono stati sacrificati: musica lounge, successi del momento, musica strumentale e così via.
Telefonate interminabili che portano alla putrefazione dell’attesa, ovvero la noia E come i cani Pavlov, appena ri-sentiremo quella canzone avremo voglia di scappare.
Ci sono degli incurabili ottimisti che dicono che l’attesa del piacere è essa stessa un piacere.
Parlare con un operatore che mi dirà “si, la multa va pagata” non può essere inteso come un piacere.
Ma in ogni caso per me l’attesa è solo sede dell’ansia.
Che musiche mi sentirei quindi di consigliare?
Se volessi essere sarcastico sceglierei “Apocalypse Dreams” dei Tama Impala. Manderei in loop il verso pieno di domande:
“Bé, allora?
Mi sto avvicinando?
Arriverò mai?
Importa qualcosa, in fondo?
Mi serve veramente?”.
A quel punto il morto che ci scappa però potrebbe essere l’operatore telefonico.
Oppure cercherei di ricordare che ci sono telefonate peggiori, insinuando il senso di vergogna.
Manderei in loop il primo verso di “Romulus” la canzone in cui Sufjan Stevens racconta della madre schizofrenica.
“Una volta, nostra madre ci chiamò
E aveva una voce che sapeva di tosse dell’anno prima.
Ci passammo la cornetta
Dicendo due parole sull’Oregon.
Quando arrivò il mio turno, mi vergognai.
Quando arrivò il mio turno, mi vergognai.”
Voglio vedere se quando arriva il turno il chiamante non si sarà almeno un po’ impietosito e avrà una un atteggiamento meno ostile.
Oppure cercherei di sorprende con un romanticismo totalmente fuori luogo.
E usare il verso degli Interpol:
“Ma sei così carina
Quando sei così frustrata, cara.
Sì, sei così carina
Quando sei sedata, cara.
E adesso mi riposo.”
Ma alla fine ha ragione Giorgio Gaber: “c’è un gran bisogno di silenzio, siamo come in attesa”.
foto: Andrea Ferrato