09 Feb Stay little Valentine, stay | Andrea Ferrato
In una città di provincia non succede mai nulla: magari è anche un luogo comune ma la realtà è che se anche succede qualcosa è come se non fosse accaduto.
Tutto ritorna alla normalità nell’arco di un paio di titoli su qualche testata e di un qualche vociare in una piazza.
E parlo di quelle città di provincia con la specializzazione nel curriculum, quelle che neanche un visionario luminare, dotato di capitali, riuscirebbe a spostare dal loro binario di consuetudini.
Gli stessi abitanti, quelli che ripetono più spesso il luogo comune di cui sopra, sono portati a mantenere le cose sul medesimo surreale equilibrio e possono essere in grado, con comportamenti più o meno palesi, di livellare qualsiasi genere di slancio, riportandolo ad una stagnante normalità.
A metà degli anni ottanta era tutto di plastica; ripensandoci ora scatta anche qualche nostalgia rispetto all’attuale abbondanza di ferro arrugginito e legni marci.
La musica rifletteva pesantemente questa componente liscia e lucida e, se l’orecchio era un po’ esigente, l’esilio in territori certi o totalmente inesplorati era l’unica possibilità.
Era anche il momento migliore per andare a riscoprire le radici, magari da utilizzare per capire come si era riusciti a far diventare tutto così stucchevole; se non tutto, almeno molto.
Il teatro, di quel taglio moderno e neutro, senza alcuna concessione all’estetica, era riscaldato in modo eccessivo.
Tutti i presenti avevano un fagotto di abiti appoggiato sulle gambe; la prima fila era riservata agli abituè e generalmente erano tutti uomini di mezza età, in mano un disco o un CD, pronti per un autografo.
Le luci si abbassarono lentamente e anche i ritardatari presero velocemente posto; con il buio il sipario di velluto rosso non si aprì, un cerchio di luce ne illuminò la parte centrale e dopo qualche secondo spuntò la parte terminale dello strumento.
Partì un leggero applauso educato che sapeva di essere inopportuno e quindi durò il tempo di far conoscere al musicista il piacere per sua presenza.
Il suono inconfondibile iniziò subito come lo si aspettava. Aveva una dimensione fisica più legata al tatto che all’udito, una superficie flessibile, solo lievemente ruvida; non ti accarezzava ma ti si appoggiava sulla pelle e forse era più dalla pelle che assorbivi quel suono.
Il sipario si aprì lentamente, il musicista era seduto su una sedia, il viso con tutto il peso della sua vita.
Indossava una camicia a quadri scozzese rossa, sufficientemente vistosa per non notare la stessa in un posto in platea.
Lei non assorbì gli sguardi cauti che si spostavano dal palco alla sua poltrona; lei continuava a guardare, con un’espressione avvolgente, il musicista che iniziava a cantare.
Lo stava abbracciando e la voce leggera del musicista ricambiava qualcosa che la platea non riusciva a decifrare, forse confusa dal calore e dallo spettacolo intenso, non previsto per il programma della serata.
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