06 Feb Segnali utili | Stefano Guerrini
Non guardo più così spesso la televisione come un tempo e ammetto che a volte mi imbambolo davanti a certi fenomeni televisivi, tanto dall’addormentarmi fra le grida di una polemica di un reality o di quelle che prendono vita fra gli ospiti dei tanti programmi dove si dovrebbe fare informazione.
Ogni tanto però mi concentro e capita che succeda con una nota trasmissione televisiva dove spesso ospiti, nazionali e non, vengono intervistati con garbo e voglia di fare informazione, il presentatore qualche volta è stato accusato di essere ripetitivo, un po’ noioso, troppo charmant, o ‘piacione’, nei confronti delle dive internazionali, ma non soffermandomi su tutto questo, mi capita spesso di scoprirmi incuriosito ad ascoltare uno scambio di battute con l’ospite di turno o l’intervento di qualche personaggio.
È per questo che domenica scorsa ho avuto il piacere di assistere al ritorno in televisione di un signore che ha reso grande in passato il nostro piccolo schermo, ma anche il mondo del teatro e della canzone italiana.
Johnny Dorelli è tornato in tv per “Che tempo che fa” e per Fabio Fazio, immagino aveste capito che stavo parlando di lui, dopo diversi anni di assenza dalle scene.
Un Dorelli rallentato nell’andatura, è stato appena operato ad un ginocchio, ha conquistato lentamente la poltrona in cui solitamente Fazio accoglie i suoi ospiti, ma la stessa lentezza ha caratterizzato l’incontro.
Una chiacchierata in cui la carriera incredibile di un personaggio è stata sviscerata con delicatezza ed educazione con il contrappunto dell’ironia di Dorelli, del suo stupore quasi nel rivedersi raccontato, modesto e allo stesso tempo immenso.
La sua presenza mi ha catapultato indietro alla televisione di quando ero piccolo, di quando non c’erano i dati d’ascolto, ma si preferiva parlare di indice di gradimento, di quando i sensazionalismi privati non avevano spazio in tv, ma tutti preferivano essere incantati non dalle privazioni di quattro folli su un’isola, ma dai costumi e dalla voce di Mina a “Mille Luci” o dai balli sensuali delle gemelle Kessler a “Studio Uno”.
Il ricordo di vecchie edizioni del Festival di SanRemo, o di parodie di Diabolik, quel Dorellik che nato come uno sketch è poi diventato così famoso da ispirare alla Disney il personaggio di Paperinik negli albi di Topolino, ha preso la dimensione di un malinconico, ma non triste, ricordo di quello che noi tutti siamo stati.
E l’Italia di allora, nelle parole di Dorelli e Fazio, aveva toni garbati ed eleganti, guardava all’America dei crooner, ma incensava la creatività di italiani eccelsi come Modugno, era un’Italia da cartolina, ma allo stesso tempo verissima, sentimentale e commovente nel suo essere quasi naif.
Per un attimo, e forse anche per un po’ di più, ho desiderato tornare a quell’Italia.
Sia chiaro, non sono stanco di poter accedere alle mie serie preferite in streaming o in canali preposti che guardo anche dal mio tablet, non sono stufo, forse, dei social e del loro modo così veloce per interagire e connettermi con persone lontanissime, non rinuncio alle app che mi facilitano la vita e non rinnego i miei follower.
Però è stato bello ricordare che c’è stata un’epoca dai tempi più lenti ed i modi più gentili e che tutto questo non è affatto perso, forse bisogna imparare a viverlo più spesso nel nostro quotidiano. Un whatsapp in meno e un caffè in più con un amico? Riscoprire la bellezza della calligrafia, di un biglietto di ringraziamento, invece di un freddo sms? Rallentare, invece che accellerare.
Oppure si potrebbe trovare un giusto compromesso, dove, lontano dal voler demonizzare le nuove tecnologie, decidiamo di usarle per sminuire tutto ciò che veramente ci ammorba la vita, i tempi morti nella fila alla posta o alla banca, ridurre quelli per raggiungere una meta perché seguiamo una mappa che effettivamente ci spiega il territorio e non è una voce insopportabile sullo sfondo di un viaggio, tanto per fare piccoli esempi.
E così accelerare e rallentare diventano le facce di una stessa medaglia.
All’insegna del vivere meglio. Io ci proverei. E voi?
foto: Andrea Ferrato