08 Mag Quell’isola così umana | Alberto Guizzardi
Di fronte a un film di Wes Anderson rimane addosso lo stupore per l’inventiva che questo regista riesce a infondere a qualunque sua opera.
Anche ne “L’isola dei cani” ultima sua fatica, la sensazione rimane quella.
Siamo di fronte alla ormai conosciuta struttura andersoniana: personaggi apparentemente bidimensionali, una storia che segue immaginarie linee orizzontali e verticali, dialoghi al limite del surreale e dello straniamento.
L’utilizzo dello stop motion e lo svolgimento della storia in un Giappone molto più simile a quello dei grandi padri del cinema nipponico piuttosto che all’anime moderno, esalta all’ennesima potenza le qualità di messa in scena ormai arrivate al puro virtuosismo.
La storia è né più né meno che una favola o almeno così chi vuole la può intendere.
Un sindaco che come tutti i suoi antenati odia i cani decide che debbano essere confinati in un’isola spazzatura dove si deciderà il loro destino.
Sono considerati portatori di malattie e non possono più stare nella comunità.
Ma il figlio adottivo del sindaco non può capire una scelta così crudele e rivuole il suo cane e farà di tutto per andarselo a riprendere.
E allora guardando bene, quel sindaco non potrebbe essere Trump che alza muri o assomigliare piuttosto a presidenti così poco democratici vedi a caso Erdogan o Putin così bravi ad aizzare e imbavagliare le folle?
E quel l’isola da dove cercano di scappare i cani non ci ricordano luoghi passati e presenti di barbarie umane?
E infine quel bambino che lotta per il suo cane non ci ricorda chi resistente e resiliente afferma il diritto di lottare per quello per cui si crede?
Forse è solo un impressione, forse è veramente solo una favola e non c’era nessun intento politico.
Ma è come quando passi davanti a qualcosa che ti meraviglia , la guardi, vai avanti, fai 2 passi, ti fermi, ti giri e la riguardi e poi riparti con la sensazione che quello che hai avuto davanti fosse qualcosa di più profondo di quello che ti aspettassi.