16 Feb Ore e minuti | Stefano Guerrini
Sono nato alle 7 e 45 del mattino, poco prima che la città prenda vita, qualche minuto prima che aprano i negozi e che suoni la campanella della scuola, forse per questo, per questi minuti che rimandano ad un’azione che sta per accadere, che precedono l’avvenimento vero e proprio, che l’idea dell’attesa un po’ mi appartiene da sempre.
E di momenti legati all’attesa ne avrei tanti da condividere.
Le mattine ad orari improbabili sui libri, in attesa di un esame, quella volta che attendemmo ore, io e la mia compagna di studi, per parlare con il nostro relatore di tesi, che ora nutre anche di una certa fama, salvo sentirgli dire, in maniera chiara, grazie a dei muri di carta, alla segretaria un salomonico: “Gli dica di tornare dopo Natale!”, che ritardò tragicamente la nostra consegna di tesi di una sessione.
Ma anche quella volta in cui fuori da una sfilata attesi l’arrivo del mio idolo, di allora e di sempre, cioè Madonna, salvo poi riuscirne a vedere a malapena la testa, sepolta nell’abbraccio di enormi guardie del corpo.
Ma alla parola attesa il mio primo pensiero va ad una estate di tanti anni fa.
Da bambino le mie vacanze erano con la famiglia in campeggio, in posti sempre belli, ma molto lontani dalla Romagna, perché assecondavamo il desiderio di un cognato subacqueo e la sua ricerca di mari particolarmente incontaminati, che negli anni Settanta e Ottanta voleva dire partire, se si voleva restare in Italia, ad esempio per Santa Maria di Leuca in Puglia o Capo Rizzuto in Calabria.
Ricordo l’ultimo nostro anno in Puglia. Ero grandicello, ma forse per timidezza, insicurezza di quello che ero, anche a causa del mio aspetto che non consideravo di grande appeal, passai tutta la vacanza senza stringere amicizie e a fare da baby sitter a mia nipote.
Attendendo però con ansia il 16 agosto, data in cui si sarebbe tenuto nel paese del nostro campeggio il concerto del cantante più famoso di quell’anno.
Penso di avere rotto le scatole così tanto che i miei decisero di comprare i biglietti e di accompagnarmi.
Come ogni adolescente che si rispetti vedevo l’idea di me ad un concerto con i miei genitori un po’ da sfigato, ma quell’evento era forse l’unica cosa che avrebbe potuto dare un senso ad una vacanza brutta come poche.
Ci fu, fra gli adulti della nostra comitiva, anche chi si divertì, un filo crudelmente, ad inventarsi che la star in questione aveva avuto un incidente in barca ed era disperso in mare, come da annuncio radio raccontatomi con dovizia di particolari, inventati ovviamente.
Scherzo al quale finimmo quasi per credere, andando allo stadio dove si teneva il concerto, con il dubbio che potesse essere annullato.
Ricordo il paio d’ore prima dell’inizio, un’altra attesa, ricordo che i miei genitori, dopo aver fatto il sacrificio di accompagnarmi ad un evento che apparteneva molto poco a loro e alla loro generazione, si sedettero incrociando le gambe per terra con me e in mezzo a tanti altri ragazzi.
Ricordo con precisione le chiacchiere e le risate, la serenità di quel giorno, ricordo che li sentii non solo genitori, ma amici, che li vidi partecipi della mia passione e pieni di gioia. Erano lì per me e con me.
Non rammento molto del concerto di Eros Ramazzotti, ma sono certo che ad un certo punto cantò “Adesso tu”, il successo del momento, la canzone che avevo ascoltato un milione di volte in quella vacanza, mettendo tanti di quegli spiccioli nel jukebox, oggetti ormai estinti, che ancora oggi quella canzone la so a memoria.
Non ricordo il concerto, dicevo, ma quando sento le note tristi con cui il pezzo inizia, quando Eros canta: “Nato ai bordi di periferia, dove i tram non vanno avanti più, dove l’aria è popolare, è più facile sognare, che guardare in faccia la realtà”, non riesco a non farmi assalire dalla malinconia, dal ricordo di quelle ore in attesa, di un pomeriggio in cui Angelo e Tonina sono stati i miei compagni di avventura, i miei amici, i miei eroi.
foto: Andrea Ferrato