31 Lug Luoghi come generatori di esperienze | Stefano Guerrini
Agli inizi di giugno ho avuto il piacere di essere ospite del Circolo Mario Mieli di Roma e di Jill Morris, ambasciatrice inglese a Roma, nella giornata di apertura dei festeggiamenti della capitale per il Pride.
Nella residenza dell’ambasciatrice a Villa Wolkonsky si è tenuta #LoveisGreat una conferenza sull’importanza della musica pop inglese degli anni Ottanta sulla comunità LGBTQ italiana.
Io e il collega, docente di moda e fashion writer, Paolo Ferrarini, abbiamo parlato di Boy George e Pete Burns, ma anche dei Bronski Beat, esteticamente i ragazzi della porta accanto, ma anche molto politicizzati.
Ad un certo punto, dopo i miei racconti di estati adolescenziali a caccia di popstar nelle strade londinesi, giornate soprattutto trascorse fuori casa dei miei adorati Duran Duran, la moderatrice della serata, la giornalista de La Repubblica Alessandra Vitale, mi ha chiesto perché Londra fosse per noi così speciale.
La mia risposta è la stessa di ieri, dello Stefano poco più che adolescente, come quella di oggi, adulto, con un animo ancora pop: a Londra succedono cose!
E ai presenti in Villa ho ricordato un episodio di molte estati fa.
Di quando io e la mia amica del cuore, per cercare la dimora di John Taylor, bassista dei Duran, non sapevamo neanche noi per quale motivo preciso, se non per strappargli un autografo o una foto, ci trovammo davanti alla casa sbagliata, con una figura non molto visibile che ci scrutava dalla finestra, dopo che un po’ rumorosamente avevamo cercato di attirare l’attenzione del nostro John, che chiaramente non abitava lì.
Tempo dopo leggendo la biografia di Ava Gardner scoprii che in quella casa, quella a cui per sbaglio avevamo suonato, aveva vissuto la diva americana negli ultimi anni della sua vita.
Ho sempre amato pensare, conoscendo lo spirito anticonformista della star, che Ava, forse un po’ scocciata per il disturbo, avesse però sorriso di due sciocchi ragazzini italiani, pieni di energia e sogni.
Quando lo scorso anno poi, tornato a Londra, guidato ancora dalle passioni, diventate ora un mestiere, mi sono trovato a leggere alla mostra su Balenciaga del Victoria & Albert Museum, che alcuni abiti erano stati donati dalla Gardner, che aveva vissuto “proprio dietro l’angolo dal museo”, ho voluto pensare che Ava in qualche modo mi avesse dato la sua benedizione, il suo ok al percorso di un adolescente insicuro che ora aveva trovato la sua strada.
Londra è sempre stata così per me, una città di incontri e rivelazioni, di scoperte, karmica si potrebbe dire.
Sono tornato nella capitale britannica pochi giorni fa e ancora una volta mi sono immerso nelle tante proposte che quel luogo ha da offrire.
Avevo prenotato un musical, non uno dei più famosi, non ne sapevo molto, lo avevo scelto sulla base solo del cast che lo interpretava.
Anche in questo caso ad attendermi c’era una piccola, grande sorpresa.
Per anni nella mia adolescenza avevo trascritto nei diari le parole di una canzone che non ricordavo da dove fosse saltata fuori, una di quelle a cui ti aggrappi, pensando ai grandi sogni e speranze che si hanno da ragazzini.
E l’altra sera mi sono ricordato di tutto, le parole venivano da un musical che avevo visto in tv da bambino, innamorato dei film anni trenta e quaranta di Hollywood, forgiato da quello storie che vedevo solo davanti ad uno schermo, nei pomeriggi d’estate, e in quel momento “42nd Street” veniva invece ballato e recitato live davanti ai miei occhi.
E quando quella canzone è arrivata, parlando di sogni infranti, che possono rinnovarsi, e di speranza, ho pensato che ancora una volta Londra mi sorprendeva, ricordandomi il potere della nostra volontà e dei nostri desideri, ricordando allo Stefano bambino, in questo periodo un po’ disilluso e sconfortato, che non si deve mai gettare la spugna, che c’é sempre tempo per cambiare e per arrivare a nuove mete.
Che c’è sempre tempo e modo per desiderare una vita migliore.
foto: Andrea Ferrato