07 Giu Esiste una vita al di fuori dei dischi? | Matteo Lion
Vi capita mai di comprare un disco o un libro attirati esclusivamente dalla copertina?
Ultimamente mi succede sempre meno spesso perché le informazioni sulla band o sul disco in questione arrivano molto prima di avere fisicamente il prodotto tra le mani.
Ma qualche mese fa, scorrendo le ultime uscite nel mio negozio di dischi preferito, mi sono imbattuto in una copertina che mi ha colpito subito.
La cover è formata da due foto in bianco e nero affiancate.
A destra, leggermente più grande dell’altra, c’è l’immagine di una scalinata interna. La scalinata ha ai lati ampie vetrate da dove filtra una gran luce che va quasi a sfocare l’immagine.
A sinistra, leggermente più piccola, una foto di un prato con dei fiori bianchi.
La foto di destra è impaginata in orizzontale. Quella di sinistra in verticale.
Poi c’è il titolo. Scritto piccolo piccolo. Senza maiuscole.
“Quando cammini a lungo sei stanco”.
Scritto però solo sotto l’immagine della scalinata.
E subito mi sono immaginato lunghe camminate su e giù per le scale. Con un mondo fiorito e pieno di sole. Fuori.
Non c’è il nome della band. Bisogna girare il disco per scoprire che si tratta dei mothers, madri.
Decisamente in contrasto con il disegno di un bambino che non si capisce se stia dormendo, stia fluttuando in assenza di gravità o peggio ancora sia morto.
E c’è pure un altra foto, sempre in bianco e nero. Una fila di sedie allineate.
Non ho resistito, l’ho comprato al volo.
Fin dai primi minuti devo dire che sono stato colpito dalla voce della vocalist, che potrei definire petulante.
Da li in poi quel disco è stato uno dei miei preferiti negli ultimi mesi.
La band nasce Athens (Georgia) intorno alla vocalist, Kristine Leschper, che scrive tutti i pezzi.
Sono canzoni dirette sulla condizione umana. Sono mantra da ripetere al mattino. Sono pensieri a tarda notte che sfidano il passato.
Canzoni che ci ricordano che solo attraverso le emozioni sperimentiamo davvero il mondo esterno. E la cosa può risultare stancante.
Titolo e copertina mi sono sembrati quindi decisamente azzeccati.
L’apertura del disco è con “Too small for eyes” con una voce sottile e traballante che ci canta:
“Odio il mio corpo
amo il vostro gusto.
Voglio chiedere scusa a tutti quelli che incontro.
Penso di essere al mio meglio
quando niente ha bisogno di me.”
Anche in “It hurts until it doesn’t” c’è la scarsità di autostima a dominare il testo:
“Non mi piaccio quando sono sveglia.
Sono stato schiacciata dal peso del mio ego
ma mai abbastanza onesta per dirlo.”
Ma il disco deve essere servito da terapia per la sua sensazione di inferiorità, per il suo ego malandato, per la sua timidezza patologica.
E il disco si chiude con un verso di speranza:
“Ho bruciato tutte le mie canzoni
e le ho lasciate fuori
per i cani.
Penso che potrei imparare ad amare.”
Devo riconoscere che ultimamente sono vittima di un trasporto nei confronti di una serie di ragazzine poco più che diciottenni che – come in una versione fuori tempo massimo di “Giovani, carini e disoccupati” – cantano di non avere punti di riferimento, della mancanza di certezze, di solidità, di ideali, di obiettivi.
Performer che mostrano le proprie fragilità e difficoltà e che fanno emergere le proprie frustrazioni senza filtri, unendo del cinico sarcasmo con della scontata malinconia.
Oltre ai Mothers penso alla deliziosa Frankies Cosmos o all’adorabile Julien Baker.
Tra l’altro sono tutte in tour in Europa ma con nessuna data prevista in Italia.
Sarà un caso?