21 Lug E la chiamano estate | Stefano Guerrini
Ho notato quanto sui social o anche nelle conversazioni fra amici si passi gran parte dell’anno ad attendere l’arrivo del caldo e dell’estate.
Sembra quasi un rito, basta un pallido accenno di sole e tutti che fuggono subito al mare, e se non tutti sicuramente in molti, almeno in una cittadina come la mia dove ci separano dal mare davvero pochi chilometri.
Io ho sempre odiato questo rito, ricordano con orrore ancora quei conoscenti che mi invitarono ad una giornata ai lidi, quando mi videro arrivare con una borsa carica di libri, fumetti, walkman (ovviamente erano anni in cui l’iphone non c’era ancora), un armamentario che stava a significare una cosa sola: io in spiaggia mi annoio!
L’estate poi su di me ha un effetto nostalgico, non riesco a non pensare a quando ero bambino e a come son cambiati i tempi, ad esempio se ritorniamo indietro a quando ero davvero un cucciolotto che si reggeva sereno, si fa per dire, sulle gambotte cicciottelle, ricordo che ero terrorizzato dal farmi fare le fotografie, non so se fossero i flash o cosa, ma dovevo essere davvero in buona per farmi fare uno scatto, la maggior parte delle volte scoppiavo in pianti che mettevano a dura prova i timpani di chi mi stava attorno, pensando che con la macchina fotografica mi stessero rubando i pensieri o, peggio ancora, l’anima.
E qui son due le considerazioni: la prima è che a me gli sceneggiatori di “The Ring” fanno un baffo, la seconda è banalmente e, appunto, ma quanto son cambiati i tempi?!
Ero terrorizzato dal mettere la testa sott’acqua, e ci han provato in molti a correggere questa mia paura.
Povero l’istruttore di pallanuoto che mi fece far degli esercizi apposta, sostenendo che avrei fatto capriole in men che non si dica.
Ovviamente ho vinto io, continuo a detestare il mettere il capo sott’acqua e mi chiedo a distanza di anni perché dovessi farlo, visto che a pallanuoto si gioca con la testa fuori!
Ho ricordi bellissimi dei miei genitori che ballavano il valzer, e addirittura un tango, ad una serata danzante in un campeggio in cui avevamo montato la nostra tendopoli, e la chiamo così perché poteva contenere fino a dieci brandine e aveva ampio angolo cottura e spazio per pranzare, in certe cittadine universitarie la affitterebbero a peso d’oro a qualche studente!
Mia madre che scende i 240 scalini che separavano il camping Oasi, nome che ben rappesentava lo spazio alberato immerso in una landa completamente desertica, e il bellissimo mare della Calabria.
Il suo volto sempre solare, la parlantina sciolta, il prendisole a stampe floreali maxi, perché in vacanza si può osare, e un cappello di paglia enorme, che Talitha Getty in Marocco era una dilettante a confronto.
Le faceva da contrappunto mia sorella, il fisico magro e sano, i capelli lunghi mossi, sempre attenta alle mode, ma mai eccessiva, una eleganza innata, il portamento di una che se fosse nata da qualche altra parte, forse avrebbe fatto l’attrice, mi ricordava Carole André, la Perla di Labuan, lo stesso guardo limpido, sincero, sognatore.
E mio padre con la canottiera della salute azzurra a costine, sempre anche quando c’erano 40 gradi, l’unico, insieme a Tony Ward nelle campagne di Dolce&Gabbana e ad Alain Delon in “Rocco e i suoi fratelli”, ad indossare un capo così e a risultare perfetto, a proprio agio e bellissimo.
Ricordo i giorni interi in auto, le code in autostrada, per arrivare in luogi incontaminati, io sempre dietro ad ascoltare “Bravi Ragazzi” o “Non sono una signora”.
Ricordo come ci si sentiva.
“Ma com’era l’epoca tua?”, chiede il nipote a Virna Lisi nella scena finale di “Sapore di Mare”. “Mah, che ne so?! Era diversa.”
“Diversa come?”
“Ci batteva il cuore, eh sì, mi sembra di ricordare che ci batteva il cuore”.
foto: Andrea Ferrato