25 Giu Verniciare casa | Mirco Denicolò
Mio padre aveva fatto costruire una casa grande ed ogni cinque sei anni riverniciava qualche stanza.
Le cose andavano così: le pareti venivano divise in due parti, una superficie alta un metro e mezzo e la restante fino al soffitto.
La parte bassa aveva un colore, per esempio un verde, quella alta lo stesso colore in una tonalità più tenue, il soffitto era rigorosamente bianco.
Ogni stanza doveva essere pitturata con una tinta differente, doveva esprimere una diversa personalità.
Nei miei ricordi ci sono camere rosa, cucine gialle, camerini verdi, salotti azzurri.
Una unica legge regolava la scelta delle tonalità, una legge dettata da mia madre e condivisa dal buonsenso corrente: si potevano solo usare sfumature pastello, nessun colore saturo, tutto doveva essere chiaro e luminoso altrimenti “è un pugno nell’occhio”.
Questo modo di decorare le stanze non resistette agli anni 70, dalla metà di quel decennio si affermò il bianco su pareti e soffitto, “perché da luce e si pulisce meglio”.
Mio padre riuscì a resistere nel modo di trattare il battiscopa, un perimetro di dieci centimetri di altezza verniciato con una vernice lucida rosso scuro.
Il mondo del colore superò la tirannia del bianco, nei primi anni del duemila si affermò la casa dipinta con colori intensi, poi arrivarono i grigi ed i marroni, ora le carte da parati.
Ma la mia generazione, in questa parte dell’Europa, nei paesi della costa romagnola, subì l’imprinting dei colori pastello, quelle tonalità imperfette che sapevano di polvere e di tipografia povera, ma alcuni si ribellarono ed espressero la loro rivolta nelle facciate delle pensioni e degli alberghi a due stelle, in una aggressiva libertà cromatica che ancora oggi, quando percorro la statale adriatica fino ad Ancona, arricchisce il mio concetto di disordine: i colori pastello non sono educativi…