30 Lug Un’età migliore | Stefano Guerrini
Stamattina al bar, una ragazza poco più che ventenne esclama, rivolta ad una amica e indicando un altro avventore del locale: “Sì è un bell’uomo, ma è vecchio, avrà quarant’anni, non fa per me!”.
Finito il mio caffè ed uscito di lì, la frase ha continuato a tormentarmi.
Ma come: se qualche anno fa, quando Sandra Bullock e Sarah Jessica Parker han spento quaranta candeline, Vogue Us dichiarava che i quaranta sono i nuovi trenta, cosa è cambiato ora oppure questo vale solo per i vip e non per la vita reale?
Si è sempre detto che il nostro Paese è in mano alle persone di una certa età, che non si lascia spazio ai giovani, che in Italia in certi ambienti vieni definito ancora emergente, anche se lavori in quel settore da una vita, esempio banale è il fashion system dove sei un giovane designer, ma hai passato già lo scoglio degli ‘anta’.
Questo è verissimo, ma è anche evidente che ora si parla solo di millennials, generazione Z, e c’è tutta una generazione in mezzo stritolata da due mondi opposti, da un lato una elite ottuagenaria che non si è mai tolta dalle scatole, dall’altra un fermento giovanile che reclama spazio, anche laddove non abbia proprio gli strumenti per farselo.
Un mio amico ha fatto suo un motto divertente: “Youth is overrated!”, e ammetto che a me diverte molto, e lo uso spesso quando devo giustificare il fatto che un lavoro per cui ero fra i candidati finalisti è andato ad uno più giovane di me, con meno conoscenza e meno esperienza, scelto solo perché fa cool, o per disavventure simili.
Però, seppur l’espressione mi faccia ridere, quello che rappresenta mi atterrisce.
Perché l’età è diventata una ossessione, e non l’età per come noi vogliamo essere percepiti o ci auto-analizziamo, inteso come nell’era reganiana dove tutti, Jane Fonda in testa, dovevano essere scattanti e belli, ma inteso come il fatto che l’età sia diventata una qualità, che però non è spesso mai realmente tangibile, quantificabile, traducibile in effettivo segno positivo.
Come spesso mi accade allora io cerco di cantare fuori dal coro e giocare alle mie regole, penso ad esempio ad un mio idolo assoluto, che è Iris Apfel.
Una che è diventata famosa a settanta e passa anni, che alla veneranda età di novanta viene considerata icona di stile e firma collaborazioni con marchi importanti, autoproclamandosi “l’adolescente più attempata del mondo”!
Una donna che ha trasformato il suo invecchiamento in una opportunità, in un punto di forza. Ma sulla base di uno studio, di lavoro, esperienza, stile, potremmo dire di cultura?
Purtroppo non viviamo in un’epoca di inclusività, ma di discriminazione e l’ageismo è una di queste, radicata fortemente nel nostro quotidiano e che come tutte le forme di intolleranza e pregiudizio nasce da una paura, quella che tutti invecchiamo e che il fine ultimo è il grande mistero che è la morte.
Ancora una volta è Iris che ci dovrebbe far riflettere. “What’s wrong with being 72 or 82 or 92? If God is good enough to give you those years, flaunt them. It’s ridiculous this idea that once you reach a certain age you are ready for the junk, that being old is somehow dirty and disgusting. The alternative to old is not very pleasant!”, sostiene Iris.
Dovremmo abbracciare l’invecchiamento come momento esperienziale condivisibile, che possa essere esempio, aiuto, interesse per gli altri, ma anche positivo e arricchente per chi lo sta vivendo.
Solo così la prossima volta al bar potrò sentire, non: “È troppo vecchio per me!”, ma: “Non è il mio tipo!”.
Non sarebbe tutto molto più semplice?