07 Mag Altri luoghi, altre case | Stefano Guerrini
Due anni fa proprio negli stessi giorni in cui mi accingo a scrivere queste righe ho perso i miei bambini.
Chi mi segue, nel mio lavoro di comunicazione e sui social, sa bene che così ero solito chiamare i miei genitori, una mamma e un babbo fantastici, che hanno molto lottato nella vita, con una grinta ed una tempra invidiabili, e che negli ultimi anni, nell’invecchiarsi, hanno dovuto affrontare altre sfide, e per questo io mi sono un po’ trasformato in genitore e loro un po’ in figli.
Proprio perché per troppo tempo mi sono trascurato e alcune mie necessità sono passate in secondo piano, con la loro perdita è iniziato un periodo personale complesso, in cui non solo ho dovuto lavorare su me stesso e imparare a vivere da solo, a gestire tutto quanto attorno alla mia figura, ma ho dovuto affrontare molti fantasmi, venire a patti anche con il vivere in una cittadina, che per me era sinonimo di famiglia, e dalla quale scappavo per poi ritornarci solo in funzione di un legame affettivo che ora è venuto a mancare.
Ricordo che, proprio nel periodo in cui la mia vita era purtroppo principalmente ospedaliera, qualcuno mi ha consigliato di ritagliarmi degli spazi, di cercare un luogo dove essere coccolato e dove rintanarmi, l’amica in questione mi confessò che lei lo aveva trovato in un piccolo locale.
Dove si rifugiava per pensare e stare un po’ da sola, dove ormai conoscevano i suoi gusti e bastava uno sguardo per ricevere quelle piccole premure che ti scaldano il cuore e trasformano un posto, quasi un non-luogo, nella tua via di fuga, una stanza tutta per te!
All’inizio non avevo ben considerato questo consiglio, ritenendolo quasi una banalità.
Io che non avevo messo piede in un bar neanche nell’adolescenza, quando il senso di appartenenza ti porta a voler entrare nel gruppo figo del paese, che chiaramente frequenta solo un certo locale.
Io che non guardo un campionato di calcio dalle elementari, quando lo consideravo solo per collezionare figurine, e che ho sempre pensato che capire qualcosa di calcio aprisse le porte di ogni birreria o caffetteria che si rispetti, mentre il non saper distinguere un dribbling da un rigore equivalesse ad essere un reietto del bar ed io quindi uno di essi. Come potevo cambiare opinione? Come poteva un luogo di aperitivi serali diventare importante per me che sono praticamente astemio? Ed invece… come si cambia, per citare una vecchia canzone di Fiorella Mannoia.
Io ora ogni mattina, se impegni improrogabili non me lo impediscono, mi scopro a combattere il mio ormai cronico mal di schiena e inforcare la bicicletta con il cestino davanti che era appartenuta a mia madre, arrivare al bar che è diventato il “mio” bar, dirigermi felice verso il mio angolo preferito, brontolando se qualcuno l’ha occupato, rincuorato se nel fondo del locale c’é il solito gruppo di pensionati che commenta un campionato di calcio del quale io continuo a non capirci nulla.
Quella che é iniziata come una necessità, quella di fare colazione perché ora se volevo far colazione me la dovevo andare a comprare io, è poi diventata parte di un mio percorso di vita quando le bariste, giovani, carine, spiritose al punto giusto, hanno iniziato a sostenermi nella dieta che ho scelto di fare per la mia salute e che mi spinge a credere che una brioche vegana, che di fatto ha il sapore della carta, sia quasi meglio di un bombolone alla nutella!
È stata poi una conquista intavolare prima amichevoli discussioni sul Festival di SanRemo o sulla moda, quando le ragazze hanno capito che di questo mi occupo, per poi scoprire che nel caffè il mio dolcificante preferito ci finiva ancora prima di arrivare al bancone perché erano loro a metterlo.
Ora sanno quello che mi piace e cosa non sceglierei mai, e il bicchiere di acqua frizzante fresca è già sul bancone quando entro.
Aveva ragione la mia amica quando sosteneva che un posto che non è “casa” può imparare a coccolarti, riservarti quelle piccole premure che sanno riscaldarti il cuore.
A me è successo quando le figure al di là del bancone sono diventate amiche che si raccontano e ti ascoltano.
Quel bar non é solo diventato parte di una mia nuova quotidianità, ma tassello importante di un mio percorso di vita all’insegna del cambiamento e della scoperta di quello che sono.
Forse il calcio non sarà mai un mio interesse, forse continuerò a sorridere di certe abitudini di provincia, non perché mi creda superiore, ma semplicemente perché non mi apparterranno mai, ma é stato bello scoprirsi diverso da come mi credevo e a volte tanto simile a chi non avrei pensato.
E ora che i miei bambini non ci sono più è difficile non interpretare il fatto che il bar si chiami Life un po’ come segno del destino!
foto: Andrea Ferrato