09 Dic Qualcosa di passaggio | Andrea Ferrato
Il sabato pomeriggio si consumava con quell’improbabile causalità sorretta dal bisogno di ritagliare spazi per auspicabili momenti speciali.
La statale, grigia come il cielo di novembre, si allungava allontanandosi dalla periferia.
Sulla destra il centro commerciale brulicava di automobilisti dediti alla ricerca del posto migliore.
Che poi cosa avranno sempre tutti da comperare, tutti insieme, tutti a cercare l’orario migliore che nessuno ha mai trovato.
Felici di ingabbiarsi in una scatola finemente decorata, spurgata da qualsiasi distrazione che non sia legata al comprare: un po’ come quegli animali legati e costretti a mangiare anche se loro, lasciati liberi, due passi distanti da lì, li avrebbero fatti volentieri.
Gli arrivò, prepotente, senza un minimo preavviso, senza un collegamento, una ricorrenza.
Senza qualcosa che lo riportasse sopra, come quando spostava i dischi che ascoltava troppo negli scaffali più alti, un milione di anni fa, per la paura di potersene annoiare.
Arrivò senza mezzi termini, con tutto quello che era stato distribuito casualmente negli anni.
Tutto ordinato e tutto insieme, tutto lì davanti senza la possibilità di poter dire che “ero al telefono”.
C’erano stati momenti e ragioni precise, c’erano state motivazione chiare che riuscivano a mescolarsi in soluzioni che non avrebbero mai potuto funzionare.
Ma nonostante questo i nodi si riallacciavano e le trame diventavano più resistenti.
Era forse quel bisogno comune di riconoscersi attraverso linguaggi basici che chiunque avrebbe potuto comprendere in modo facile e che invece raccontavano della necessità di un calore e di un sapore da scambiare e passare tra le mani, riconoscendone le forme senza nominarle, senza associarle o costringerle in contenitori fatti per altro.
Era lì, tutto attorno, con tutte le facce e tutte le voci, con tutte le risate e tutte le telefonate disperate.
E non c’era modo di non pensare a tutto quello che non era stato fatto, a tutte le volte che si era rimandato, a tutte le volte che sarebbe andata bene un’altra volta.
In fila c’erano tutte le occasioni, ora perse, sostenute dall’impossibilità di pensare al possibile, a ciò che si voleva immaginare solo un momento peggiore, un momento di cui si sarebbe parlato davanti alla fetta di crostata in un pomeriggio qualsiasi.
Quello strano posto era già pieno quando arrivarono al concerto e, inaspettatamente, erano tutti seduti.
E il musicista suonava col cuore mentre due mani, proiettate sul muro bianco, rincorrevano le note e le emozioni con segni fluidi e avvolgenti.
Pensò a quanto si sarebbe annoiato e il calore di un sorriso asciugò quell’ultimo rivolo di ricordi.
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