21 Feb Long, long time | Alberto Guizzardi
Tratta da un videogioco famosissimo, “The Last of Us” è una serie che mi ha spiazzato.
L’ho iniziata a vedere più per il tam tam mediatico che per un reale interesse e ora mi ritrovo ad aspettare impaziente il nuovo episodio settimanale.
Il plot può essere simile a tanti altre disaster series: vent’anni fa un fungo causò una devastante pandemia e nel giro di pochi giorni tutto fu perduto.
Il presente è diventato una terra desolata dove gli umani si devono difendere dagli infetti, spaventosamente mutati geneticamente, ma soprattutto da loro stessi.
I pochi sani vivono in aree fortificate sotto un regime para fascista oppure sono ribelli ma suddivisi in organizzazioni spesso altrettanto violente.
Joel, contrabbandiere disilluso e cinico è costretto a portare in salvo Ellie ragazzina di 14 anni immune al virus e speranza per la creazione di un vaccino.
La storia si trasforma in un road movie attraverso un’America devastata dove la cosa che conta di più è sopravvivere.
Rispetto al videogioco qui ci si prende il tempo di approfondire le relazioni tra i personaggi principali e quelli incontrati lungo il cammino: c’è il fratello maggiore che tradisce per salvare il minore malato, la donna che si sacrifica per il bene dell’umanità, e poi ci sono Bill e Frank la cui storia si dipana per un episodio intero dove si incontrano, si amano e convivono per 20 anni in un paradiso dove nessuno può entrare. Una digressione che emozione e commuove.
Mentre il racconto procede mi vengono in mente riferimenti al romanzo “The road” di Cormac McCarthy ma anche ai film “Una storia vera” di Lynch e “Up” della Pixar, ma credo che chi sta guardando questa serie troverà un rimando a un resoconto personale o a una narrazione già raccontata.
La sensazione è che, qualunque sia il contesto di fondo, le persone fanno di tutto per sopravvivere e vivere la loro vita qualsiasi cosa ci sia là fuori.