05 Ott La pazza gioia di Björk | Matteo Lion
Dopo 5 anni dal suo ultimo disco, a settembre Björk ha pubblicato ogni settimana una nuova canzone tratta dal suo album “Fossora” uscito poi l’ultimo giorno del mese.
E ha spiazzato tutti, nel bene e nel male.
Negli ultimi due anni aveva tenuto varie date del suo tour “Björk Orchestral“, concepito come una celebrazione della propria carriera, proponendo diverse canzoni dal proprio repertorio riarrangiate per orchestra.
L’orchestra concettualmente doveva dare una nuova vita alle canzoni. Ma alla resa dei conti, secondo me, alcuni pezzi risultano penalizzati dagli arrangiamenti orchestrali, appiattendo una discografia molto varia in una proposta omogenea ma forzata.
Insomma era come vedere una versione moderna di “My Fair Lady” con Björk al posto di Audrey Hepburn, una rozza fioraia che viene trasformata in una fanciulla raffinata e perfettamente a suo agio nei teatri classici dell’alta società. Insomma, forse un pò troppo bon-ton.
A fine estate ha anche lanciato un podcast, Sonic Symbolism, in cui in ogni puntata racconta in modo molto dettagliato la gestazione creativa di ogni suo album.
Insomma sembrava quasi una perpetua celebrazione del suo lavoro, come se si trattasse di un definitivo punto di arrivo finale.
Ecco perché quando è stato lanciato il primo singolo “Atopos” la sensazione straniante è stata totale.
È una canzone dal difficile ascolto, fuori dagli schemi, inclassificabile nello stile e che non può essere inquadrata in nessun genere musicale.
A dispetto del ritmo serrato e dai suoni duri e potenti, è una canzone che nel testo celebra la speranza.
Il testo di “Atopos”, per stessa ammissione di Björk, è stato ispirato proprio da quanto scritto da Barthes, in “Frammenti di un discorso amoroso”. Lui sosteneva: “L’altro che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l’Unico”.
Un vecchio aforisma dice: “La speranza è un rischio da correre”. Correre inteso proprio come attività motoria secondo Björk che nel testo dice “la speranza è un muscolo che serve per connetterci”.
Quel verso sembrerebbe più indicato ad un Life Coach anziché ad un artista visionaria come lei.
Già in passato la cantante aveva parlato di speranza, con la sua canzone intitolata proprio “Hope”, che raccontava di una kamikaze incinta che si uccide in un attentato, esprimendo quindi il concetto di speranza decisamente in modo meno didascalico.
Ma se, come diceva Aristotele, la speranza è un sogno fatto da svegli, Björk nella sua nuova canzone ci tiene a tenerci vigili e attenti.
E infatti lanciando la canzone sui suoi social la cantante invitava tutti ad ascoltarla a volume molto alto.
Sperare significa mettersi in cammino verso un altrove, significa anche osare di vivere in altro modo.
La speranza è vita come insegna la leggenda del vaso di Pandora. Pandora, un giorno scoperchiò il vaso che le era stato donato da Zeus, liberando così tutti i mali del mondo, che erano gli spiriti maligni della vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia e il vizio.
Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza, che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Dopo l’apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale simile ad un deserto, finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza, ed il mondo riprese a vivere.
Nella canzone di Björk si sente decisamente questa vitalità, questo ritorno alla vita. In fondo anche Bjork ha aperto il suo vaso di Pandora con gli spiriti maligni della vecchiaia (a 56 anni non è più una ragazzina), della gelosia (il divorzio da Matthew Barney non è stato certo una passeggiata), della malattia (ha dovuto operarsi per un polipo alle corde vocali), della pazzia (che ha subito dallo stalker Ricardo López ma che ha anche esercitato nel famoso incidente di Bangkok). Nella canzone tutte queste difficoltà vengono liquidate come scuse. E non ci possono essere scuse per andare oltre, per sperare altro. Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato. E l’insperato per Björk in questo caso è il connubio tra il suono dei clarinetti bassi e i beat del DJ Kasimyn.
Io stesso al primo ascolto avevo sentenziato, -no grazie!- e avevo definito la canzone goffa e scomoda.
In rete la canzone è stata molto criticata e un articolo dal provocatorio titolo “Se Björk smettesse di cantare (sarebbe meglio)” diceva: “sono ormai due decenni che canta la stessa cazzo di canzone che non va da nessuna parte e che, soprattutto, si rifiuta di “ascoltare” dove sta e dove va la musica che scorre sotto di lei”.
Poi, ascoltandola più volte proprio nel tentativo di capirla, questa traccia è diventata per me una specie di ossessione, continuo a sentirla perché ne riconosco la vitalità e la sua “spinta”. Ne sento l’intenzione.
Qualcuno ha detto che la musica dovrebbe essere un rifugio, sia quando la scrivi che quando la ascolti. “Atopos” è esattamente il contrario: ti trovi fuori dal tuo rifugio e sei spinto ad agire velocemente la tua strategia di sopravvivenza.
Una settimana dopo viene pubblicata “Ovule“, che ci porta totalmente verso un’altra direzione. Ricorda i suoi lavori passati e forse li mette più a fuoco, stavolta togliendo e rendendola – volutamente – totalmente scarna. Quindi esattamente il contrario di quanto fatto nell’ultimo tour.
È una canzone d’amore, ed è forse uno dei testi più romantici scritti dalla cantante che lei ha spiegato così: “c’è una sfera sopra di noi che rappresenta l’amore ideale, una sotto di noi che rappresenta il lato oscuro dell’amore e noi camminiamo nella terza sfera dove vive l’amore quotidiano come quando il lunedì mattina ci si incontra in cucina”.
Ci parla con la sua intelligenza romantica che ora sa guardare all’essenza, e si concentra su quello che le cose sono davvero. La stabilità del quotidiano è espressa bene dalla canzone che musicalmente non va davvero da nessuna parte o porta verso qualcosa, ed è quasi un sottofondo al testo poetico. E anche stavolta riesce nell’incantesimo. Al primo ascolto la sensazione è che le parti strumentali suonino disgiunte dal cantato eppure più la si ascolta e tutto sembra avere perfettamente il suo senso.
Una settimana dopo esce il terzo singolo, “Ancestress” – con suo figlio ai cori – dedicato alla memoria della madre morta da poco. “Se fossi stato un prete, è quello che avrei detto al suo funerale”. Il testo è crudo nel descrivere i momenti prima della morte: “La sua macchina ha respirato tutta la notte mentre riposava / Ha rivelato la sua capacità di recupero / E poi non è successo”.
Nel testo della canzone dice della madre: “Aveva un senso del ritmo idiosincratico. Inventa parole e aggiunge sillabe”. Ma anche Björk ha senso del ritmo tutto suo, allunga volutamente le sillabe e tende a calcare la pronuncia delle erre fino quasi a farle suonare come un grugnito animalesco. Quindi accettare (e perdonare) la natura della madre è un modo per accettare anche se stessi come parte di un destino comune, che parte da più lontano della propria nascita.
La canzone ha davvero l’intento di essere di conforto agli afflitti, di confessione e perdono, di “cura d’anime” grazie ad una melodia ripetitiva e quasi sciamanica che riesce a fare da mediatore tra il mondo umano e il mondo soprannaturale degli spiriti, dei morti e delle divinità.
La morte di una madre inevitabilmente ci porta a riflessioni sulla propria mortalità che di fatto non appare più così remota. Cambia anche il rapporto tra le generazioni e non siamo più “il figlio” ma diventiamo noi la generazione in prima linea e ci impone un allargamento di prospettiva.
E nel disco infatti troviamo la canzone “Her Mother’s House” scritta e cantata con la figlia Isadóra Bjarkardóttir Barney in cui dice: “Più ti amo, più forte diventi e meno hai bisogno di me”. Questa “architettura matriarcale” fatta di generosità e rinuncia, di cicli e di infinito, di vita e di morte; è molto presente in questo disco.
Nella canzone “Sorrowful Soil” dice: “Nella vita media di una donna lei arriva a 400 uova ma solo 2 o 3 nidi. Questo è il nichilismo che accade a te, hai fatto bene. Hai fatto del tuo meglio”. Sarà compassionevole nei confronti della madre, verso se stessa (visto che in effetti lei ha 2 figli) o verso il genere femminile di tutte le specie viventi?
Björk nell’ultima canzone del suo precedente disco, “Future Forever”, ci invitava ad avere speranza e di fidarci del nostro istinto per farci andare avanti; con la certezza che il futuro è pieno di infinite possibilità. E con “Fossora” siamo dentro al futuro che lei ha inseguito caparbiamente fatto di autoconsapevelezza, libertà, potere e autorevolezza riconosciuta che le permettono davvero di fare esclusivamente quello che le pare senza badare a mercato, gusti, classiche, dati di vendita. Forse troppo personale e autocompiaciuto? Forse si e qualcuno può avere la tentazione di guardarla come farebbe Beatrice Morandini Valdirana del film “La pazza gioia” e dirle: “Ma non puoi trovare un taccuino per scrivere queste cose, invece di cantarle?”
I detrattori diranno che l’arroganza diventa il colpevole dell’autocompiacimento di questo disco registrato in autonomia e avendone il pieno controllo creativo.
No, sicuramente no. La canzone “Victimhood” è un tale casino sonoro che a volte diventa quasi impossibile finirne l’ascolto.
È un disco sincero?
Totalmente. Si sente la totale libertà creativa e le follie di una ricca privilegiata che può avere a disposizione i migliori creativi e collaboratori per dare vita alla sua personale visione.
Piacerà ai vecchi fans?
Credo di si, è in linea con la produzione meno popolare che l’artista ha cominciato a intraprendere dal disco “Medulla” del 2004. Può diventare un “classico björkiano” nella sua variegata proposta meno omogenea di altri dischi e ogni tipologia di fan può trovare la propria suggestione.
Ci saranno però anche fans che saranno rimasti troppi delusi visto che qualche mese prima della pubblicazione fa aveva annunciato che il disco era stato pensato per aiutare le persone a ricreare nel salotto di casa l’atmosfera dei club e fatto per balla in casa, per poi ritrovarsi invece con canzoni di tutt’altra atmosfera.
Porterà nuovi adepti al culto?
È un disco così lontano dai gusti e dagli algoritmi che governano il mondo che dubito che allargherà la platea degli estimatori di Björk.
Anzi credo servirà a confermare un certo pregiudizio di “alternativa a tutti i costi”.